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  • matteoman07

L' Arno nel corso dei secoli

Aggiornamento: 6 mar 2022

La navigazione lungo il bacino dell’Arno ha rappresentato, nelle diverse epoche, un tratto distintivo e caratterizzante della sua storia. Tuttavia, la percorribilità del fiume subiva sovente delle discontinuità dovute alla sua natura torrentizia, in ragione della quale vedevano l’alternanza periodi contraddistinti dalla scarsità delle precipitazioni e altri, sebbene di breve durata, durante i quali la copiosità e la violenza delle piogge implicavano piene o esondazioni. Ne conseguiva una notevole mutabilità stagionale della sua portata.

L' Arno spicca per un notevole carico di detriti, che raggiungono una elevata consistenza allorché la corrente li trasporta nella piana, facendo sì che si depositino lungo il fondo e sulle rive . Ciò ha comportato, nel corso delle epoche, un costante innalzamento dell'alveo e la presenza di una rete idrografica anastomizzata, ossia ‘a canali intrecciati’. Una caratteristica geologica siffatta è stata il presupposto, in concreto, di un canale contrassegnato da una significativa larghezza; i suoi margini sono sovente soggetti a mobilità: i detriti subiscono uno slittamento e, di conseguenza, avviene lo spostamento del corso d’acqua. L'instabilità dei corsi d'acqua, unitamente all'evenienza di fenomeni disastrosi, ha comportato un rapporto non sempre lineare tra l'Arno e la popolazione. D'altro canto, come sottolineato anche da Salvestrini, «gli arenili, le rive e le piagge [...] hanno ospitato nei secoli numerose comunità, attratte dalla fertilità dei suoli alluvionali, dall'accesso privilegiato alle risorse ittiche, dalla forza motrice che offriva la corrente e dall'opportunità di un più agevole trasporto delle merci».


Sin dall'epoca romana, il corso d'acqua più lungo della Toscana ha costituito

un elemento di fondamentale importanza per l'evoluzione di Florentia e del territorio

circostante, nonostante fosse sostanzialmente esterno al tracciato urbano. Anche in

una fase di decadenza per la città quale fu l'Alto Medioevo, l'Arno non perdette il suo

ruolo egemonico, a maggior ragione a causa della condizione di deterioramento in cui

versavano le strade. Ciò fece sì che il fiume rappresentasse la via di più facile

accesso a Firenze, che aveva però subito una notevole contrazione, distanziandosi

ulteriormente dal corso d'acqua. L'occupazione delle propaggini prossimali all'Arno da

parte della popolazione inizia ad essere attestata a partire dall'anno Mille, quando

questo, nella pianificazione generale, fu compreso come parte integrante dell'assetto

urbanistico. In ragione di quest'ultimo aspetto, furono intraprese numerose opere di

regimazione, con l'intento di limitare la sua possibilità di espansione. A titolo

esemplificativo, citiamo le pescaie, uno dei principali mezzi utilizzati per costringere le

correnti, le quali sfruttavano la forza motrice dell'acqua nei periodi di relativa siccità: a

partire dalle pescaie si dipartivano le gore, dei canali che convogliavano le acque

grazie a sistemi quali mulini e gualchiere; questi ultimi contribuivano, tuttavia, a creare

ingorghi nelle correnti nei momenti di piena.

.


A partire dal XIII secolo, in gran numero iniziarono ed essere edificati dei sistemi aventi

la funzione di mettere in comunicazione le due rive del fiume, che era diventato a

questa altezza cronologica un punto nevralgico dal punto di vista economico, sociale

e, altresì, giuridico-normativo; il suo controllo mantenne sempre uno scopo di primo piano per il perseguimento della prosperità del territorio, nonché per la sua sicurezza. A tal proposito, fin dal XII secolo le fonti storiche menzionano a più riprese i «rettori e consoli dell’Arno», i quali erano probabilmente dieci e ricoprivano il ruolo di vigilanti, finanche di responsabili degli interventi di manutenzione e costruzione di tipo idraulico. Davidsohn riporta, inoltre, la notizia secondo cui avrebbero avuto, in aggiunta, il compito di supervisionare le chiuse e le pescaie, garantendo che fosse mantenuto il numero prestabilito, il quale doveva essere limitato affinché non fosse compromessa l’agevolezza della navigazione e le correnti non venissero ostacolate.


Nel primo Duecento le prerogative sopracitate passarono nelle mani di un’organizzazione apposita, retta da ecclesiastici e laici. A partire dalla seconda metà del secolo, con l’avvento del Popolo al governo, tuttavia, questi organi subirono una progressiva esautorazione a vantaggio di una amministrazione comunale. Parlando delle operazioni ausiliarie alla gestione dell’Arno, come già accennato, è importante menzionare i mulini e le gualchiere, che fino al XIII secolo costituivano una proprietà da parte degli enti ecclesiastici: numerosi possedimenti su entrambe le rive del fiume erano in possesso principalmente del monastero di San Salvi, della badia di Vallombrosa e di San Miniato al Monte. Queste tipologie di manufatti, tuttavia, vennero sottratte dal Comune alle autorità ecclesiastiche a partire dalla fine del Duecento. Tale inversione di rotta comportò il dispiegamento sul campo di operazioni che miravano a rendere maggiormente sicuri i sistemi in questione, analogamente a una politica di controllo attuata sul «commercio delle granaglie e alla richiesta di imposte sul macinato». Nell’ambito della politica comunale di cui è stata appena fatta menzione, non mancarono, sovente, accordi stipulati con i detentori di ampi possedimenti del mondo ecclesiastico. A titolo esemplificativo, i cistercensi della Badia a Settimo, in cambio della concessione del porto di Signa per far fronte alla necessità di macinato, ottennero la protezione militare su di esso e sulle costruzioni a contatto con l’Arno. Il Comune edificò, inoltre, numerosi opifici di natura pubblica, sebbene di difficile mantenimento fossero gli equilibri tra le esigenze produttive e, non di minore importanza, la necessità di poter usufruire di una navigazione efficiente. Come ricordato anche da Salvestrini, dopo la pace di Costanza (1183), le nuove città comunali dell’Italia centro-settentrionale pretesero e ottennero la giurisdizione sui corsi d’acqua, in virtù della quale numerose opere pubbliche di manutenzione ed

edificazione ex novo furono condotte. Firenze aveva ottenuto il diritto di esercitare il

controllo sull’Arno fino a Signa. Ciò fu reso possibile in seguito alla conquista e, quindi,

alla distruzione del Castello di Monte Orlandi, a Gangalandi. I signori che potevano

vantarne il possesso, fino al 1107, erano stati infatti anche i detentori delle prerogative

esercitate sul territorio signese. Tale passaggio di proprietà rappresentò un

momento particolarmente significativo per Firenze: i registri commerciali di Francesco di Marco Datini costituiscono una fonte estremamente preziosa, la quale ha il merito

di informarci delle «scafe» che nel XIV secolo transitavano sull’Arno, specialmente per

il trasporto della manifattura tessile. Le carte della Mercanzia fiorentina ci

restituiscono un quadro dei settori lavorativi di quest’epoca, in cui troviamo

«piattaioulos, navigatores, barcaiolos et schafaiolos». Le chiatte provenienti da Pisa

raggiungevano il porto di Signa (o, in alternativa, Empoli così come l’approdo del

Pignone). Qui erano raggiunti dai navicelli, mezzi di dimensioni più piccole.


Come ricordato all’inizio della nostra trattazione, l’Arno, sebbene di indubbia rilevanza

per la vita di Firenze e del territorio alle sue porte, rappresentava un elemento di

debolezza per l’equilibrio dell’area che lambiva. Le alluvioni costituivano senza alcun

dubbio il più significativo motivo di timore nell’immaginario collettivo, sebbene nel

corso dei secoli e delle epoche i cittadini dovettero giocoforza imparare a convivere

con la doppia natura del corso d’acqua. I ponti, in particolar modo, erano oggetto il più

delle volte di violente distruzioni e di conseguenti ricostruzioni. Le fonti, nello specifico,

ci restituiscono un quadro disastroso e quanto mai copioso di dettagli in riferimento

all’alluvione del novembre 1333. La catastrofe è ricordata in modo sentito e accurato

dalla Cronica di Giovanni Villani, così come da numerosi altri testi letterari e dagli atti

deliberativi del Comune di Firenze. L’amministrazione agì con tempestività, con

l’intento, nel breve termine, di rimediare alla immane sciagura che si era abbattuta

sulla città e, allo stesso modo, con la dichiarata intenzione di adottare misure

specifiche di tipo preventivo. Le autorità cittadine avevano fatto propria la convinzione espressa dal Villani in merito al ruolo decisivo giocato da sistemi quali mulini, pescaie

e gualchiere nell’aggravare gli esiti del cataclisma. Si procedette quindi con

l’attuazione generalizzata di misure drastiche, nonostante le magistrature sin dagli

ultimi decenni del Duecento avessero già legiferato nell’ottica di una più consona

gestione del corso d’acqua dal punto di vista ambientale, sia nel perimetro urbano che

nei contesti rurali più vicini alla città: le fonti menzionano infatti operazioni di

manutenzione di ponti e argini; venne regolamentata con maggiore sistematicità il

corso delle acque di scarico; le strutture architettoniche nelle vicinanze dell’Arno

furono sottoposte a più frequenti restauri.


Dopo il funesto 1333, d’altro canto, gli interventi in materia si fecero meno sporadici e più consapevoli. Come non sarà difficile intuire, eventi di questo tipo divennero sempre più frequenti, aggravati dai disboscamenti che avevano luogo in particolar modo nel Pratomagno e nel Valdarno, estendendosi talvolta fino ad aree rurali prossimali alle rive del fiume. Sebbene, con un dovuto pragmatismo, saremmo troppo intemperanti qualora sostenessimo che dopo tale alluvione tra coloro che detenevano il potere iniziasse a essere presente la piena coscienza di un rapporto di causalità tra i due eventi, tuttavia è possibile notare che i rettori non intervennero soltanto con una normativa da attuarsi sul fiume. La documentazione in nostro possesso ci consente di venire a conoscenza della

presenza di leggi a tutela del manto boschivo e del legname. Salvestrini riporta, a tal

proposito, un veto di questo tipo rivolto ai monaci di Vallombrosa, che col tempo, in

qualità di proprietari terrieri, iniziarono a limitare l’espoliazione di risorse, regolando il

taglio delle piante e occupandosi della loro cura. Tuttavia, man mano che si facevano

più rarefatte nella memoria cittadina le immagini della avvenuta calamitas, il rigore

dell’amministrazione fu mitigato. Soltanto in seguito ad una ulteriore tragedia verificatasi nel corso della metà del XV secolo, si intervenne nuovamente con misure

attuate nel clima di una rinnovata sensibilità ambientale.


Andrea Arrighetti, Raffaella Leporini


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