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  • matteoman07

Il Ponte di Signa nel Medioevo

Le fonti a noi note fanno menzione del ponte di Signa già nel 1217. Nonostante ciò, in aggiunta al documento appena citato - che è ritenuto dalla maggior parte degli storici che si sono occupati del manufatto oggetto del nostro studio la sua più antica attestazione - è opportuno sottolineare che una ricerca condotta da un appassionato di storia locale ha fatto emergere una notizia che, se fosse confermata, retro- daterebbe il terminus finora sostenuto di sei anni. Una pergamena del 10 marzo 1211 rinvenuta presso l’Archivio di Stato di Firenze, infatti, conterrebbe un lodo avente la funzione di risolvere una controversia tra il Pievano di S. Lorenzo a Signa e il Priore di S. Martino a Gangalandi. Esimendoci dal rendere noto il motivo della disputa, non rilevante ai fini della presente indagine, ci limitiamo a riportare che, alla luce di questa ricostruzione, l’accordo sarebbe stato firmato «nel mercatale di Signa in capo al ponte». La documentazione finora edita non ci fornisce notizie in merito al materiale da costruzione impiegato per l’edificazione del ponte a questa altezza cronologica; per avere notizie in tal senso dobbiamo giungere alla metà del XIV secolo, quando il pons de Signa risulta costruito in «lapidibus et calce», avendo tuttavia «voltam duplam mattonibus».


Nonostante il numero esiguo di fonti che fanno menzione del ponte nel corso del XIII secolo, quelle in nostro possesso tradiscono elementi di particolare rilevanza storica e culturale. Il Manni, a tal proposito, informa, grazie al Priore di Santa Maria in Castello, di essere venuto a conoscenza dell’esistenza, nella chiesa suddetta, di una campana bronzea del 1266 che recava la raffigurazione del ponte signese, con quattro arcate (fig. 1).


Fig. 1 - ponte raffigurato sulla campana bronzea di S. Maria in Castello.


La sua opera, inoltre, riporta un sigillo che raffigura un ponte con sette arcate e con una torre terminale. Su di esso, inoltre, furono impressi i gigli, simbolo del potere angioino (fig.2).


Fig. 2 - Stemma che ritrae il ponte, contornato dai gigli d’Angiò.


Nello scritto di Casali, vengono riportate, tra le altre informazioni che riguardano il ponte signese, anche numerosi riferimenti alle piene e alle distruzioni che ne segnarono la storia. La prima che trovi riscontro nelle fonti è menzionata dal Repetti, il quale, discorrendo nel suo Dizionario in merito al manufatto che ci proponiamo di indagare, sostiene che il «ponticello era già rovinato nel 1278, all’epoca dell’erezione del fonte battesimale nella chiesa di S. Martino a Gangalandi stato concesso per la ragione che si era interrotta la comunicazione tra la ripa destra del fiume dov’è la pieve di Signa e la sua sinistra per la rovina del ponte». Casali sottolinea che in breve tempo le autorità provvidero al suo rifacimento. Un capitolo di storia strettamente connesso a Signa riguarda la presenza dei monaci cistercensi a Settimo, a ovest di Firenze. Come emerge dal contributo di Paolo Pirillo, nel 1251 l’abate intraprese un’operazione tesa ad accrescere il patrimonio mediante le cosiddette “pescaie” o “siepi” localizzate in prossimità del ponte a Signa. Le acquisizioni si concentrarono, da principio, sull’isola di Gangalandi, nei pressi dell’abitato di Signa. Successivamente il processo raggiunse una certa sistematicità. Difatti, nel giro di otto mesi il ritmo di questa espansione che portò alla progressiva appropriazione di porti e pescaie si fece serrato: il 10 agosto 1252 il Comune di Signa, dietro pagamento di 150 lire pisane, concedeva al monastero il diritto di «infiggere, fondare e costruire una pescaia nell'Arno, dal lato e in prossimità della piazza del mercato (mercatale) e del ponte di Signa, fino alla metà del fiume». Oltre questo limite, subentravano le prerogative di Gangalandi35. Nel 1253, tuttavia, le fonti ci restituiscono vividamente un quadro in cui emergono le rimostranze del Capitolo di San Martino per il fatto che, con ogni probabilità, dopo il trattato del 1252, la pescaia di Settimo «ostruiva ora l’intero alveo dell’Arno, da una parte all’altra delle due rive», da cui sarebbero derivati deterioramenti della pescaia di Gangalandi in occasione delle piene stagionali. La controversia fu risolta con l’acquisizione da parte del monastero di due pescaie, quella di Gangalandi, nonché quella localizzata a monte rispetto alla precedente; le acque vennero così convogliate nel complesso molitorio principale, che iniziò a comparire nelle fonti come «molendina maiora». Per avere piena contezza della valenza strategica di tale impianto, come sottolineato sempre da Pirillo, è opportuno considerare che la sua posizione nei pressi del ponte non può dirsi una casualità: infatti, come evidenziato all’inizio della presente trattazione, questo costituiva l’unico sistema sospeso di attraversamento tra le due sponde dell’Arno, ragione per cui rappresentava la possibilità concreta di affluenza per gli abitanti provenienti dalla riva opposta. Il complesso continuò ad essere identificato, nel tempo, attraverso le espressioni iuxta/ prope ponte Signe, costituendo una delle realtà usuali della politica cistercense, che in vista di facili profitti associava sovente i mulini a ponti preesistenti. Quest’ultimo elemento ci conduce, quindi, a considerare un altro fondamentale aspetto: la presenza di un porto nelle vicinanze, attestato sin dal 964, costituiva la possibilità di entrare in contatto con il sistema dei traffici fluviali e degli scambi commerciali.

Melis, a tal proposito, sottolinea l’importanza della rotta Pisa-Firenze, strettamente dipendente dall’Arno, sebbene la tratta fosse limitata all’intervallo Pisa- Signa, «da cui la prosecuzione con mulo o con carro per Firenze (e le «piatte» e «scafe» provenienti da Pisa, se dovevano far continuare l’operazione di trasporto verso Prato, risalivano l’affluente Ombrone, sino a Poggio a Caiano, là dove un secolo dopo venne costruita la villa medicea ed il suo parco)». Dal suo scritto, apprendiamo altresì che Pisa nel XIV secolo apportò delle modifiche alla sua politica economica, grazie alla quale divenne più vantaggioso prediligere, per compiere il percorso Pisa-Firenze, la tratta mista «barca-carro», rispetto a quella che prevedeva di percorrere esclusivamente la via terrestre. La prima modalità aveva un costo, per 100 libbre, di 8 soldi, contrariamente a quella via terra, che veniva a costare tra i 12 e i 18 soldi. In merito al commercio, importantissime testimonianze ci vengono fornite dalle “lettere di vettura” provenienti dal porto di Signa a Francesco di Marco Datini, il quale, dopo essere stato un mercante di successo ad Avignone, nel 1382 intraprese il viaggio di ritorno alla volta della sua città natale, Prato. Da qui si adoperò per aprire fondachi a Firenze e a Pisa. Il Gruppo Archeologico Signese, anni or sono, ha svolto una interessante ricerca presso l’Archivio Datini di Prato, portando alla luce circa trecento lettere che costituiscono la corrispondenza tra il mercante e gli operatori del porto di Signa. Ai fini della presente ricostruzione, questa documentazione risulta di fondamentale importanza per comprendere la reale portata dei traffici commerciali, in virtù dei quali il ponte si conferma nella sua funzione di punto nevralgico dell’economia in un’area di vasta portata. D’altronde, le fonti attestano il copioso trasporto di «salem, salinam, caseum, pisces salatos, tonninam, lanam, coltrones et stramen»; il ponte, quindi, rendeva più agevole i collegamenti tra Pisa, Prato e Pistoia, consentendo lo smistamento dei prodotti. Casali, nell’opera a cui qui più volte è stato fatto riferimento, menziona la «fortificatione et defensione castri et pontis de Signa», che nel 1325 la Repubblica fiorentina aveva ritenuto indispensabile, visto il ruolo egemonico e strategico che ricopriva. Il Comune, in circostanze siffatte, era solito avvalersi di figure provenienti dagli ambienti religiosi in qualità di esperti nella direzione dei lavori. Apprendiamo, infatti, dagli Statuti del Podestà che sia ai frati umiliati di Ognissanti, che all’abate e al convento di S. Salvatore a Settimo era garantita l’immunità fiscale, in virtù del fatto che «cotidie quasi labores tollerent et incommoda et expensas in servitium populi et Communis Florentie». Tale occasione non conobbe eccezione, dal momento che i lavori di fortificazione e restauro furono affidati «a Donato monaco e a Taddeo converso della Badia a Settimo». L’operazione in questione trovava un valido, ulteriore incentivo nel fatto che le autorità cittadine avevano la necessità di fermare la venuta di Castruccio Castracani. Tuttavia, costui e le sue truppe avanzarono quando l’impresa di consolidamento del ponte non era stata ancora conclusa. Difatti, il 28 febbraio del 1325, il condottiero lucchese «raccolta la sua gente, fece arder Signa, e tagliare il Ponte sopra l’Arno». Dopo la disfatta, ad ogni modo, il ponte venne restaurato in breve tempo. Proseguendo la rassegna delle fonti in senso cronologico, il Repetti attraverso la sua opera ci informa che la Signoria di Firenze, con una deliberazione del 27 maggio 1331, nominò Marco di Rosso Strozzi, Naddo di Cenni, il priore di S. Bartolo di Firenze, e Ranieri Peruzzi affidandogli il compito «di far demolire dentro giorni otto tutte le pescaie e mulini dal Ponte a Signa fino sotto al Castello di Capraia, ch’erano di proprietà dei monaci di Settimo». Fu stabilito, inoltre, che al Monastero di Settimo - spese escluse - fosse pagata una somma equivalente a 3500 fiorini. Tale operazione aveva lo scopo di agevolare il transito di «nave et navigia». Le fonti ci forniscono degli spunti particolarmente significativi per ricostruire, su base bibliografica, le fasi di decadimento e ricostruzione in cui si articola la storia costruttiva del ponte.

La piena del 1333, che arrecò danni a numerosi ponti del contado di Firenze, non risparmiò quello signese. Leggiamo, infatti, «Dictis pilis pontis de Signa receperit aliquam lesionem». Erano trascorsi quattordici anni appena, allorché il ponte vide nuovamente la sua struttura gravemente danneggiata. Casali, a tal proposito, riporta una attestazione, che recita «pons de Signa tunc existentes super flumine Arni cecidit ita quod super ipso ponte nemo poterat transire flumen Arni». I lavori di rifacimento principiavano due anni dopo, quando per le operazioni in questione furono stanziate dalle autorità cittadine 800 lire allo scopo di «refectere et construere pontis de Signa [...] utile est dictum pontem [...] refici et construi». Ritornando al prezioso apporto pervenutoci dalle fonti iconografiche, è opportuno menzionare, a questo punto, lo stemma del comune di Signa, il quale fu scolpito nel 1393 e apposto sull’architrave maggiore della pieve di S. Giovanni Battista, venendo spostato in seguito sul portale destro (fig.3).


Fig.3 - Stemma del comune di Signa (Pieve di S. Giovanni Battista)

La raffigurazione fa emergere la presenza di un ponte caratterizzato da sette fornici e una torre merlata, la quale, fu edificata sul versante di Lastra a Signa a protezione del sistema sospeso di attraversamento. Il Gamurrini identificò la struttura turrita con quella poi inglobata nel palagio che fu edificato per volontà di Filippo della famiglia Pandolfini. Nella sua opera, a tal proposito, si legge: «edificò un magnifico Palazzo al Ponte a Signa, dalla parte dell’Oltrarno, incorporando in esso quell’antica Torre che soprastava il ponte concedutali dal Comune di Fiorenza, forse per essere alquanto disfatta, o non più necessaria alla difesa del Ponte. Fù questo Palazzo fabbricato con tanta onorevolezza, e capacità, e posto in luogo si opportuno per essere sù la strada, che va da Fiorenza a Pisa, ed altri luoghi, che lo rese degno, che dentro vi alloggiassero in diversi tempi ed occasioni più, e diversi Principi, ed altri gran personaggi [...]». Questa visione sembra condivisa da Romagnoli, che, all’inizio di questo secolo, si trovò ad analizzare le fonti in merito alla detta torre. Nel corso del XV secolo, come Repetti sottolinea, il ponte fu oggetto di due principali rifacimenti, che trovarono ragione nell’esigenza di consentire un passaggio più agevole ai «navicelli», a tale altezza cronologica limitati per la presenza in elevato di archi ritenuti troppo piccoli. Si procedette con due operazioni di edificazione, che trovarono applicazione rispettivamente nel 1405 e nel 1479, per volontà dei Capitani di Parte. Si giunge, dunque, al rapporto del XVI secolo del Mechini e del Di Pagno, in occasione del quale questo è raffigurato ugualmente con sette fornici, tra i quali però quello centrale era maggiore di ampiezza e raggiungeva, altresì, una altezza più elevata (fig.4).



Fig. 4 Raffigurazione del ponte in un rapporto del XVI secolo (Mechini e Di Pagno).


di Andrea Arrighetti, Raffaella Leporini

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