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  • matteoman07

Il Ponte di Signa in alcune delle sue Iconografie di Francesco Monciatti

In “lapidibus et calce”


Con queste parole prese a prestito dal latino delle cancelleresche medievali, veniva definito il ponte di Signa alla metà del trecento in uno dei primi documenti che ne attestano definitivamente la presenza come attraversamento in muratura fra le due sponde dell’Arno.

Molto si è scritto sulle origini di questo ponte, probabilmente ben più antico di quanto le fonti e le ricerche documentarie possano tuttora comprovare, ma l’aspetto sul quale concentriamo adesso la nostra attenzione riguarda invece quel collegamento come elemento “caratterizzante” del paesaggio delle Signe e di tutte quelle testimonianze che lo hanno visto al centro delle arti figurative nel susseguirsi delle varie epoche come tratto distintivo del nostro territorio. Non è infatti un caso che una delle sue prime attestazioni iconografiche sia quella legata all’araldica del libero comune, nato

alla metà del secolo XIII quando il territorio di Signa, dopo lunghe contese, riuscì ad emanciparsi dal feudo ecclesiastico dell’Abbazia di Settimo, del quale faceva parte in virtù dell’assetto territoriale derivato dal Sacro Romano Impero. Le lotte per l’indipendenza territoriale dal governo dei monaci avevano visto come punto del contendere proprio quei diritti feudali che i cistercensi

vantavano sul Ponte di Signa con le relative pescaie e mulini, quasi a testimoniare la consolidata importanza economica che l’attraversamento rivestiva già prima di quel secolo e che fu probabilmente alla base anche del suo forte richiamo simbolico.


L’immagine stessa del ponte rappresentava infatti una perfetta sintesi di quegli elementi che garantirono sviluppo e prosperità alla comunità signese: nella sola figura dei suoi sette archi presidiati da una torre e sovrastati fin dai primi del trecento dall’emblema dei fiordalisi della casa d’Angiò, erano infatti riassunti l’importanza economica e strategica di una comunità ambiziosa. Non sorprenderà pertanto la presenza dell’emblema del ponte al di sopra dell’architrave dell’antico portale maggiore (attualmente portale di destra) della Pieve di San Giovanni Battista, il quale, nonostante vari rifacimenti, orna fin dal 1393 l’ingresso del principale luogo di culto delle Signe. Presso il chiostro della stessa Pieve si custodisce anche un frammento lapideo di uno stemma comunale che riporta il suddetto simbolo appena descritto, mentre la stessa figura del ponte era presente (stando ad una notizia del Manni) su una delle campane della chiesa di Santa Maria in Castello, fusa nell’anno 1266 dove il ponte era tuttavia rappresentato con sole quattro arcate.


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Se i simboli furono importanti per la parte politica, lo stesso si può ben dire anche per quella religiosa: il ponte infatti compare nelle agiografie che riguardano la Beata Giovanna, eremita vissuta a cavallo fra la fine del secolo XIII e l’inizio del XIV secolo, fortemente venerata dalla comunità signese nel corso dei secoli come locale patrona, con grande e sentita devozione che vide coinvolti anche alcuni Granduchi di Casa Medici.

Una personalità fondamentale il cui forte richiamo spirituale ha ispirato alcune fra le più suggestive opere d’arte del nostro territorio come il pregevole cassone dipinto nel 1438 da Pietro da Gambassi (attualmente custodito presso la Pieve di San Lorenzo) il quale accolse lungamente i resti mortali di Giovanna; oppure come il celebre ciclo d’affreschi tuttora presente nella Pieve di San Giovanni Battista, già attribuito da Federico Zeri agli anonimi maestri “di Signa” e del “1441” 3 . Il carattere delle pitture venne definito in passato da alcuni critici come “popolaresco” a causa del loro linguaggio che ancora guarda con una certa affezione ai modi del trecento, sebbene esse risalgano

alla metà del secolo successivo. Gli affreschi della pieve signese narrano per grandi riquadri le storie della vita di Giovanna, pastorella che scelse di farsi “romita” ritirandosi a vita contemplativa presso una semplice celletta edificata nella zona più umile e bassa del paese abbracciata dall’ansa dell’Arno e per questo detta “La costa”.


2 D.M. Manni “Osservazioni istoriche sopra i sigilli antichi” Firenze 1739-1784, II, pp. 117-118.

3 Federico Zeri “Mostra arte in Valdelsa” presso Certaldo, in “Bollettino d’Arte” XLVIII 1963, pp. 245-258.


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Una scelta frutto di quella forte temperie spirituale che caratterizzò lo scorcio del duecento e l’inizio del secolo successivo, accostabile ai coevi esempi di Santa Verdiana di Castelfiorentino e della Beata Giulia Della Rena di Certaldo, casi in cui tali figure di eremite divennero ben presto punti di riferimento per le stesse comunità che ne ospitavano la presenza. In uno degli affreschi attribuiti al maestro del 1441 si narra della guarigione di un cieco da parte di Giovanna, la quale appare al centro della scena attorniata da una piccola folla, mentre compie il miracolo nei pressi della propria celletta. L’ambientazione riprende diversi elementi del paesaggio signese, fra i quali spiccano i

campanili delle Pievi di San Giovanni e di San Lorenzo, con in primo piano l’ansa dell’Arno dove si svolge la scena principale. Nei pressi di tale ambientazione è collocato pertanto il ponte di Signa mostrato dalla sponda lastrigiana e rappresentato con i consueti sette archi. L’anonimo maestro ha avuto perfino cura di rappresentarne simbolicamente le “bugne” della pietra impiegata per la sua costruzione, così come non è stato avaro nel mostraci i particolari di un fiume Arno pescoso e solcato da quei piccoli navicelli che per secoli hanno fatto transitare le merci fra Firenze ed il resto

del mondo.


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Si tratta dunque di una rappresentazione pittorica la quale nonostante la consueta sintesi, restituisce un penetrante richiamo realistico verso alcuni elementi distintivi del nostro paesaggio; una testimonianza unica ed inconfondibile di come la rappresentazione dello spirituale fosse strettamente legata ed ambientata proprio nei i luoghi dove si svolgeva la vita quotidiana e pertanto immediatamente riconoscibili a fedeli e viandanti.

Qualche tempo dopo, alla metà del secolo XVIII sarà invece il pittore ed incisore Giuseppe Zocchi a consegnare alle stampe il vero aspetto che il Ponte di Signa aveva attorno al 1753. L’opera di Zocchi merita particolare attenzione: non si tratta infatti del mero esercizio di stile di un vedutista, ma di un puntuale “reportage” delle ville e dei luoghi maggiormente significativi della Toscana. Un’impresa voluta dal Marchese Gerini, celebre mecenate e collezionista fiorentino, con l’intento di una dedica a Maria Teresa d’Austria, futura imperatrice, la quale all’epoca era stata da poco

nominata Granduchessa di Toscana assieme al marito Francesco Stefano di Lorena. Gli accordi dinastici fra le varie potenze europee avevano infatti portato alla scelta dell’ex Duca di Lorena come successore dell’ormai estinta dinastia medicea e la giovane coppia granducale aveva messo piede a Firenze per la prima volta soltanto in quegli anni per un brevissimo soggiorno che probabilmente aveva toccato anche le Signe durante uno spostamento verso il porto di Livorno. Dedicare un ciclo di incisioni alla nuova Granduchessa appariva pertanto come un’operazione

importante quanto prestigiosa per la quale scegliere accuratamente alcuni fra i luoghi migliori da rappresentare, arricchendoli di particolari significativi mostrati attraverso una resa precisa e puntuale, supportata da accurate misurazioni di proporzioni, spazi ed edifici, così come dall’impiego di uno strumento prospettico come la “camera oscura” già ampiamente utilizzata nell’ambito della pittura veneta. Zocchi mostra fedelmente il Ponte di Signa nei suoi prospetti di levante e di ponente, mettendo in risalto l’elegante profilo medievale dell’attraversamento contraddistinto dalla tipica lieve curvatura “a schiena d’asino” e da sette archi caratterizzati ormai da luci variabili sia nella tipologia dell’apertura che nella loro altezza. Si tratta infatti

essenzialmente del ponte d’età medievale più volte restaurato e rimaneggiato ma non ancora contraddistinto da quella forte elevazione ben evidente nelle fotografie del primo novecento e probabilmente dovuta all’intervento dell’ingegner Neri Zocchi, chiamato nell’anno 1804 ad elaborare un progetto per aumentare l’altezza del ponte al fine prevenire l’innalzamento del livello del fiume. 4


4 Forlani “Lungo l’Arno” p.57, fig. 30.


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Il ponte mostrato nelle incisioni di Giuseppe Zocchi è pertanto protagonista centrale del paesaggio della valle dell’Arno e delle attività tipiche del territorio delle Signe: nella veduta da levante spicca in primo piano l’attività del porto fluviale con il suo carico e scarico di merci. Navicellai e renaioli sono intenti nei propri mestieri, svolti alla luce del sole dal lato della riva lastrigiana, dove un forzuto garzone reca in spalla una cassa con soprascritto il nome del Marchese Gerini (committentedell’opera) 5 . Intanto sul dorso del ponte è ritratto un cavaliere in attraversamento verso la sponda signese, mentre in alto, sulle colline, il pittore rappresenta l’elegante prospetto di Villa Salviati (meglio nota come “Delle Selve”) con l’attiguo convento carmelitano avvolto in un folto di giovani cipressi, elementi che sovrastano ed ingentiliscono la scena, ricordando la numerosa presenza di

ville e residenze gentilizie, tipica di quei luoghi.


5 Rainer Michael Mason “Giuseppe Zocchi-Vedute di Firenze e della Toscana” Firenze 1981, pp. 102-103.


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La stessa puntuale resa della quotidianità è presente anche nella tavola che mostra la veduta del ponte da ponente: qui sono la quiete e l’ampiezza della portata del fiume ad imporsi, così come la leggerissima figura del navicello mosso da una leggera brezza che veleggia in primo piano alludendo ancora una volta ai commerci fluviali. In questa composizione il ponte rappresenta quasi una sorta di “quinta” scenografica che permette al pittore di mettere in risalto l’abitato del Ponte a Signa, dominato dalla Pieve lastrigiana di San Martino in Gangalandi, dalla “torre” e dalla villa Pandolfini che dall’alto della loro posizione collinare s’impongono sulla veduta, mentre in primo piano alcune eleganti figure tornite ed abbigliate secondo la moda settecentesca adatta ai viandanti,

percorrono i sentieri a margine del fiume, oppure appaiono intente nell’attività della pesca. Quello che Zocchi trasmette attraverso le proprie incisioni non è soltanto il ritratto preciso di un luogo, ma anche di una certa cultura visiva fatta di un’indagine sempre più scientifica del reale, dove l’emozione si mescola alla “dissezione” del particolare, alla classificazione che giunge ad investire


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perfino la bellezza del paesaggio in accordo con la sensibilità culturale del secolo dei lumi dove ogni aspetto viene classificato ed ordinato secondo una precisa funzione.

Tuttavia, per contrasto, vorremmo concludere questo breve “viaggio” attraverso le opere d’arte che riguardano il ponte signese con un dipinto meno noto del quale è stata recentemente proposta un’ipotesi di identificazione rispetto ad alcune sue specifiche con il paesaggio fluviale delle Signe.


Si tratta di una “scena carnevalesca” dipinta dal pittore Bartolomeo Bianchini (Firenze 1635 –

Vallombrosa 1711) databile agli ultimi anni del XVII secolo e custodita oggi presso la Galleria

Palatina di Pitti. 6 Bianchini fu artista particolare: allievo di Ciro Ferri, fu molto vicino nei suoi anni fiorentini alla figura del Gran Principe Ferdinando De’ Medici, raffinato e colto conoscitore, sempre incline verso gli animi eccentrici, dei quale anche il pittore sembra essere stato un interessante

esempio. Egli ebbe infatti una vita molto avventurosa come riporta Francesco Baldinucci nei suoi scritti 7 , il quale ci racconta dei suoi importanti viaggi, non soltanto fra Roma e il Veneto, ma soprattutto dell’esperienza che il Bianchini condusse in Tunisia al seguito del principe Ramedan, fratello del Bey di Tunisi del quale divenne per alcuni anni uno dei maggiori artisti.

La scena carnevalesca in questione risale tuttavia al periodo fiorentino dell’artista e fece parte della collezione Marcantonio e Gaetano Taddei per essere poi acquistata dalle Regie Gallerie degli Uffizi nel 1778 assieme ad altre opere. Il dipinto è stato lungamente attribuito al pittore olandese Theodor Helmbrecker, fino a quando nel 2002 Marco Chiarini ne ha proposto la corretta assegnazione al Bianchini su base documentaria e stilistica 8 al quale vanno anche diverse altre opere riguardanti

scene legate ai carnevali ed alle “Fiere” nei dintorni di Firenze 9 , in accordo con quel gusto per le “stravaganze” tipico della civiltà barocca. Il soggetto del dipinto è stato infatti identificato nelle “mascherate” presenti in una delle commedie tratta da “Il teatro delle favole rappresentative” di Flaminio Scala, in particolare quella detta “Dell’Orseide” nella quale figurano appunto le maschere di Dorinda, Arlecchino e Pedrolino come figli del vecchio pastore Ergasto. Al centro della scena una figura di commendatore travestita da orso richiama infatti il nome della commedia (Orseide) e

reca in mano un cofanetto mostrato alla bella Dorinda, mentre la figura di Pedrolino apre il corteo carnascialesco connotata da un naso “alla pulcinella” e da un grosso mestolo appeso alla cinta i quali ne caricano le sembianze in senso grottesco. In testa al corteo è il Tempo, figura di anziano alato che brandisce una clessidra come a ricordare ogni divertimento ha un suo inizio ed una sua fine.


7 Baldinucci 1621-1728, ed.1975, p. 204.

8 Chiarini 1989, pp. 172-173, con bibliografia, Chiarini 2002, pp. 213-215.

9 M. Chiarini, in Chiarini 1990, pp.90-91; Betti 2015, pp. 71-78.


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Il luogo dove si svolge la bizzarra scena è stato accostato al paesaggio fluviale attorno al Ponte a Signa ed al Porto di Mezzo, paesaggio del quale tuttavia non bisogna pensare ad una resa puntuale e “fotografica” come nel caso delle vedute di Zocchi, sebbene ad una citazione di alcuni suoi elementi caratterizzanti. Nel dipinto del Bianchini infatti tali riferimenti al paesaggio delle Signe apparirebbero “composti” come si usava nei “paesaggi fantastici” tipici del seicento, ovvero in quelle pitture dove si “mescolavano” elementi di luoghi reali come monumenti del passato e rovine dell’antichità, con scene allegoriche o di genere. Una sorta di “assemblaggio” di particolari che serviva a connotare simbolicamente una scena rispetto a specifici richiami di significato o anche

soltanto al gusto per il bizzarro. In questo senso sarebbe possibile riconoscere nello sfondo del dipinto tre arcate e l’arrivo in testata di un ponte più ampio e parzialmente occultato nelle restanti parti dalla presenza di un navicello coperto e dalla mole di una porta/rovina “antica” la quale domina l’intera composizione ed il cui spunto sarebbe forse da rintracciare in una delle porte delle mura brunelleschiane del castello di Lastra a Signa, così come lascerebbero intuire le piccole

finestre arcuate presenti nella parte sommitale dell’edificio. Appaiono inoltre verosimili le “citazioni” degli edifici posti nella parte collinare: un convento dal campanile spiccato e turrito ed in lontananza una villa in forma di palazzetto un con un affaccio pensile sulla vallata, entrambi molto simili ai già menzionati edifici rappresentati decenni più tardi dallo Zocchi, mentre le case che attorniano la scena sul lato destro appaiono più affini a quelle che prima del secondo conflitto

mondiale si affacciavano presso la “piazzetta” di Ponte a Signa. Su tutto domina il tratto opaco di un colorito freddo tipico della diafana luce invernale caratterizzata dal ghiaccio e dagli “umidi”.


Con questa bizzarra e colta testimonianza della pittura fiorentina della fine del seicento

concludiamo idealmente questo breve percorso attraverso alcune fra le più interessanti

testimonianze artistiche di uno dei principali elementi architettonici del nostro territorio, il quale per secoli ha sfiorato la mente ed i piedi di viandanti più o meno illustri, i cui forti archi di pietra hanno salutato per secoli quelle merci che hanno fatto la fortuna della Toscana. Se anche oggi i nostri occhi non dispongono più della bellezza e dell’utilità del suo profilo andato perduto con la scelleratezza dell’ultima guerra, non resta che guardare all’esempio che l’archetipo del “ponte” tuttora suggerisce: nella tradizione romana i massimi sacerdoti dei culti avevano il titolo di “Pontefice” 10 che in origine indicava coloro ai quali era affidato il compito di sovrintendere alla cura dei ponti sul Tevere della città antica. Il termine per traslato finì per indicare le massime cariche religiose che avevano invece il compito di curare la pace e lo spirito, poiché la figura stessa

del ponte è elemento che “unisce” e non divide. Rammentando al lettore questo significato, auspichiamo che la conoscenza delle testimonianze del nostro passato possa essere vero stimolo, oggi più che mai, a costruire ponti e non più a distruggerli.


Francesco Monciatti


Dizionario Treccani, voce “pontéfice” (s. m. dal lat. pontĭfex -fĭcis, che tradizionalmente si ritiene comp. di pons

pontis «ponte» e tema di facĕre «fare»: inizialmente il termine designava forse colui che curava la costruzione del ponte

sul Tevere)



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